viernes, 27 de julio de 2012

Blasit Agol Zei


Punto di Stella
I Forum dei dialetti garganici
(Peschici, Rodi G., Vico del Gargano)
Peschici – 17 Luglio 2012



Scrivere e trascrivere i dialetti anche del Gargano
di Nando Romano

Autorità, Signore, signori, buonasera,
in apertura mi tocca ringraziare l’infaticabile Piero Giannini, cui devo la mia presenza qui questa sera: il tema dei lavori è di tutto interesse ma abbastanza complesso, in quanto aspetti sociologici del dialetto (si deve o non si deve parlare il dialetto?) rincorrono aspetti tecnici (come si scrive un dialetto?). Sembra quindi che emergano due grandi esigenze. La prima è connessa alla rivendicazione e conservazione o meno dell’identità etnica in tutti i suoi aspetti, ed “in primis” la lingua; un tema che entra a buon diritto nelle valutazioni socio-politiche che riguardano nel profondo l’individuo ed il gruppo e che ha riflessi nei più svariati aspetti della vita, ne affastellerò qualcuno nell’impossibilità non di elencarli ma solo di accennarli: dai rapporti quotidiani, alle “variandi” nell’italiano locale e nella scrittura che normalmente sono intesi come “errori di italiano”, alla toponomastica, ai nomi dei prodotti commerciali ed insegne dei negozi, e via dicendo.
La seconda è una domanda di chiarezza che investe il settore specifico degli studi, la dialettologia italiana: si chiede, in parole povere, di divulgare che cosa sia un dialetto, come si studia, quali le caratteristiche dei dialetti del posto, come trascriverli e come semplicemente scriverli nelle comunicazioni quotidiane anche per via elettronica (e-mail, sms).
Come si può notare sono stati innescate, in poche e semplici parole, problematiche di notevole portata per cui cento incontri non sarebbero sufficienti figuratevi questa chiacchierata.
Eppure sono grato agli organizzatori, perché, se non ci si incomincia ad impegnare, i problemi non si risolvono mai. Per questo motivo ho voluto preparare insieme a loro un CD gratuito in cui ho raccolto dei materiali sugli argomenti qui sopra esposti: ovviamente quelli che ho potuto reperire in rete e che, a parte tutto, entravano nell’angusto spazio di un CD, spero con la benevolenza degli autori i cui studi sono stati pubblicati e sperando che altri voglia sviluppare l’idea proseguendo nella raccolta. Oggi più che mai occorre mettere a disposizione le informazioni. Per questi motivi il mio titolo può apparire un po’ sibillino: si tratta di una delle rarissime iscrizioni daunie pubblicate dal mio maestro, Oronzo Parlangèli, in Testimonianze linguistiche della Daunia preromana, (in “Capitanata” 1967, pp. 39-50), ed a Lui consentitemi di dedicare queste modeste parole ricordandolo con affetto. Noi non siamo in grado di ricostruire la lingua dei Dauni per la scarsezza della documentazione: poche epigrafi viestine, fra cui questa, una lucerina e varie monete di Arpi e Salpi, ciò che la dice lunga sulla impellenza di scrivere e trascrivere il proprio dialetto e non solo per fini documentari. Blasit agol zei! Che dovrebbe essere una invocazione o un ringraziamento a Giove (*dii).
Ritornando all’assunto: va da sé che sul primo punto difficilmente posso mettere lingua, anche perché esso coinvolge considerazioni anche estetiche che spesso lasciano il tempo che trovano, in quanto è molto facile disprezzare un dialetto, da questo punto di vista, meno una lingua, solo perché la fragilità di chi esprime questi giudizi lo consente. Restano tuttavia considerazioni personali o del relativo gruppo. Posso solo aggiungere che un processo di emarginazione sta coinvolgendo varie regioni italiane non solo al Sud, in un contesto socio-economico, a mio avviso, di periferizzazione di aree che potrebbero avere, per i loro caratteri intrinseci, per la loro storia, per la bellezza del paesaggio, per la dolcezza del clima, la facilità e, consentitimi di aggiungere, la qualità della vita, ben diverso destino. E ciò a vantaggio di centri macro-economici dove si spostano le risorse del paese e dove l’individuo non ha più radici e soffre di tutti i disturbi conseguenti anche perché costretto a vivere in una reale periferia. Eppure molti, specie i giovani, pensano che sia preferibile vivere altrove che non qui. Non proseguo, lascio a voi ogni considerazione.
Posso permettermi di dire qualcosa sul secondo punto, ovviamente sarò poco meno che telegrafico. Definire un dialetto non è facile anche perché riesce più complesso parlare in astratto, mentre se si dice, “exempli gratia”: il dialetto di Peschici oggi è più facile farlo. Giacché un dialetto è una lingua normale, è la lingua in condizioni di non dipendenza o di isolamento anche relativo dell’intero gruppo o di una classe sociale, non necessariamente povera o emarginata. Si trasforma invece in un idioma subordinato ad un’altra o ad altre lingue quando i parlanti riconoscano la subordinazione della loro lingua verso un’altra, o altre, quella nazionale, o quant’altro, mutuandone fenomeni che finiranno per trasformalo e farlo apparire una forma volgare o ridotta o relativa della stessa. Ciò comporta vari problemi fra cui il più grave è la sordità fonologia, ossia i parlanti di un dialetto non ne riconoscono i suoni come succede nell’ambito dei dialetti meridionali, per la sonorizzazione delle sorde post-nasali, “exempli gratia”: i parlanti sono convinti di dire dente in realtà hanno detto: dende, e così dovrebbero scrivere in dialetto; una simile “variande” viene considerata un errore di italiano, ed insieme alle altre, nel parlato, concorre a formare… l’accento. Il tema sarà ripreso fra poco per quanto attiene i problemi della resa grafica del dialetto fenomeno in cui la sordità fonologica risulta essere del tutto funzionale nell’impedire una corretta scrittura.
Il dialetto di una piccola comunità di pastori sottoposti agli etruschi ebbe una fortuna sfacciata al punto da essere oggi la lingua più diffusa al mondo, come lo può essere il latino i cui tratti sono presenti ovunque, ed anche nell’inglese o nel cinese. Il dialetto di Firenze è alla base dell’italiano. Nessuno vieta che il dialetto di Peschici possa divenire una grande lingua, a condizione che i parlanti realizzino le condizioni che lo consentano.
Come si studia un dialetto? Molti sono i profani che si mettono al lavoro compilando grammatiche e lessici in cui in genere seguono i percorsi della grammatica della lingua nazionale, ossia di un’altra lingua che talora poco ha a che vedere con il dialetto, se non la comune origine latina e l’influsso della lingua nazionale sul dialetto e, poche volte, del dialetto sulla stessa. Le loro trascrizioni sono carentissime anche perché l’italiano è una lingua che dispone di solo cinque segni per le sue sette vocali; come è possibile, mi chiedo, trascrivere le tredici e più vocali del dialetto di Foggia con questo magro inventario? Ciò che meraviglia è che costoro spesso dispongono di conoscenze informatiche da fare invidia ma non sospettano che possa esistere una scienza dialettologica, per cui i materiali, carentissimi, sono spesso elegantemente presentati in internet.
La scienza che studia i dialetti è la dialettologia italiana. Un dialetto romanzo, come il dialetto di Peschici, è il latino parlato oggi a Peschici e si può studiare da un punto di vista diacronico, opponendolo ad uno stadio più antico del latino stesso. Inoltre può essere studiato dal punto di vista sincronico se si studia solo lo stadio odierno o di un altro dato periodo.
Quali sono le caratteristiche dei dialetti del posto? Se la grammatica di un dialetto non si modella su quella della lingua nazionale, occorre individuare percorsi specifici. I dialetti del Gargano, ed anche quelli dei nostri tre comuni, fanno parte dei dialetti meridionali, un gruppo che dalle Marche meridionali si estende fino al Circeo, ed a Sud include la Calabria settentrionale, mentre ad Est la Puglia settentrionale, con esclusione del Salento dove si parlano dialetti meridionali estremi. Nel delinearli mi limiterò alla fonetica giacché essa è funzionale ad un discorso sulla scrittura:
- Sistema vocalico basato sul romanzo comune di sette vocali: A breve e lunga, Ě, Ī, Ŏ, Ū mentre gli esiti delle vocali toniche da Ĭ-Ē ed Ŭ-Ō si fondono: come in italiano, le voci con queste vocali avranno identico esito: pépe/séra (lat.: PĬPER e SĒRA), óra/córto (lat.: HŌRA e CŬRTU).
- La metafonesi ha valenze morfologiche in quanto contribuisce a notare il plurale, il femminile o le persone dei verbi, attenuati dalla presenza dello “schwa”: abbiamo le coppie pòrkë/purkë per ‘porca/porco’ o anche këlòrë/këlurë per ‘colore/colori’, e kòrrë/kurrë per ‘io corro/tu corri’, esso è dovuto all’influsso delle vocali finali sulla tonica. Si realizza in forme diverse e dove più dove meno.
- Riduzione a “schwa” delle vocali atone.
- Sonorizzazione delle consonanti sorde post-nasali e dopo /l/.
- Assimilazione dei nessi ND in /nn/ ed MB in /mm/ per cui si ha munnë da Mundu ‘mondo’ e palummë da Palumbu ‘COLOMBO’.
- Shandi: ossia raddoppiamento fonosintattico, comune all’italiano, che prevede il raddoppiamento delle consonanti iniziali in presenza di espressioni come: vado a casa che in realtà è: vado a kkasa, in quanto la AD latina conserva la perduta /d/ nel raddoppiamento. Identico fenomeno si ha con i neutri in cui occorre distinguere rë ssalë da lu kanë, per ‘il sale’ ed ‘il cane’ (da Illud), e con i femminili: lë ffémmënë ‘le donne’.
Morfologicamente si ha il possessivo enclitico: pátëmë ‘mio padre’, ed il condizionale in –ía. Sintatticamente, l’accusativo con preposizione: agghjë vist’a Mmarjë per ‘ho visto Mario’.

Un dialetto può avere un repertorio fonetico diverso da quello della lingua nazionale, ma la stessa lingua nazionale ha un sistema in cui la sostanza fonica non corrisponde alla resa grafica. Nella tabella qui sopra ho raccolto alcune problematiche, ma non va sottovalutato che l’italiano dispone di soli cinque segni per rendere sette vocali, e che due di questi segni (i,u) rendono anche le semivocali /j/ /w/. A prescindere dalle problematiche orto-epiche degli italiani. Allora come trascrivere un dialetto? E perché si è fatta una differenza fra scrittura e trascrizione? Due sono i sistemi più diffusi per la trascrizione: quello dell’International phonetic Association (IPHA) e quello detto dei Romanisti. Il primo è il più diffuso perché legato alle fortune dell’inglese. E' fancilmente rintracciabile nel web.
Il secondo è più usato dai dialettologi italiani che tuttavia ora piegano verso il precedente, fu utilizzato dalla Carta dei dialetti italiani (O. Parlangèli, Questionario, Bari, 1967). 
Solo adesso possiamo calarci nella pratica. Quale può essere la differenza fra scrivere il dialetto e trascriverlo? Una persona di media cultura può imparare la trascrizione fonetica in poche ore, per cui, data la complessità dei dialetti pugliesi, e non tanto di quelli del Gargano settentrionale, sarebbe il caso di gridare: nell’era in cui un hobbista ne sa più di un tecnico, chi voglia trascrivere così complessi dialetti si serva di uno dei metodi qui sopra! Perbacco! A parte, farebbero prima, invece di reinventare tutto creando solo confusione. Ostano però due problematiche. La prima, il possibile rifiuto del parlante di un nuovo metodo di scrittura: ribadisco che chi sa scrivere lo sa fare nei modi prescritti per la lingua, che è per lui la lingua, sicché la grammatica di questa lingua è la grammatica; ripeto: la maggior parte delle grammatiche dialettali scritte dai profani seguono quella della lingua italiana con le sue belle... cinque vocali cinque! Anche l’alfabeto di questa lingua è l’alfabeto. Lasciate però che faccia una precisazione: l’alfabeto non è un semplice strumento, un repertorio di 21 lettere giusto per scrivere! L’alfabeto è un percorso simbolico che la nostra mentalità illuministica e positivistica volentieri ci nasconde; si collega ai primi ventuno numeri ed ai codici mantici connessi, come i tarocchi. Giocando con le lettere ed i numeri, non solo nel Medioevo e non solo nella nostra società, si cercava e si cerca di comprendere il volere di Dio. Una psicologia “ante litteram”. Può un parlante rinunziare a istanze così profonde?
La seconda problematica dipende in parte dalla precedente ed è la sordità fonologica. Una volta convinto il parlante ad usare un sistema di trascrizione fonetica, sarà capace di ascoltare ed ascoltarsi? Saprà trascrivere dende e non dente? Questo non si impara in poche ore in quanto la sordità fonologica è paragonabile spesso alla vera sordità.
Il dialetto dell’area non offre gravi problemi, a lato il sistema vocalico del dialetto di Vico del Gargano, da me elaborato sulla base del fondamentale contributo di Giacomo Melillo, I dialetti del Gargano, Pisa, Simoncini 1926. Le vocali del latino ci rendono poche vocali toniche e dittonghi (/a, è, è, au, ij, i, u, ò, ó), per cui non vi sarebbero problemi nel riprodurli anche con i pochi segni dell’italiano. Per dare una idea di questa semplicità lo confronto con lo schema realizzato dallo scrivente per Foggia (a lato), per illustrare la resa grafica di quel complesso dialetto, ideata da Anna Marino Romano († 2009) una delle più grandi trascrittrici dei dialetti italiani.
Il segreto di ogni buon sistema grafico: ad ogni fonema deve corrispondere un solo segno grafico! Ciò che consente e consentirà di leggere quanto espresso, peraltro il materiale prodotto potrebbe essere utilizzato in ambito scientifico, in mancanza di inchieste condotte da specialisti.
Questo principio non è sempre applicabile a dialetti più complessi, come quello di Foggia; qui il parlante potrebbe avere difficoltà sconosciute a quelli del Gargano settentrionale, simili a quelle dei bambini inglesi: mentre un bambino italiano impara a scrivere entro la II elementare, gli inglesi lo fanno entro la V. Anna Marino Romano, nel tradurre, dallo spagnolo in foggiano, la commedia di Jacopo Langsner, Esperando la carroza, molto dovette soffrire per ridurre i segni diacritici, tollerando anche qualche ambiguità. Come si può vedere nell’illustrazione qui sotto, Ella riunì le vocali turbate sotto l’accento circonflesso (/î, û, ê, ô/), le centrali (/ë, ä/) sotto la dieresi, tolse gli accenti alla /i/ ed /u/ chiuse, lasciandoli su quelle aperte; mancando l’opposizione è~è ed ò~ó, tolse gli accenti alle semiaperte /è – ò/. Per le consonanti segnalo solo le pre-palatali /ś/ e /ć/ (fricativa) e la resa delle occlusive post-palatali /kkj/ e /gghj/.
Segue un brano della commedia: Krìscé fìgghjë, krìscë… (purkë)(Atto I, scena II):
Elvìrë: Angôr'a kkuà stäjë! Agàavëz’u kûlë da quela seggë, so i gùnëcë, e da stamatînë ke stäjë assëttätë a lleggë, vìstëtë, múuvëtë, vatt’a ffa na doccë, ke fit’a kkänë múurtë!
Tanùccë: Moo, moo! kuanda kazzë dë frettë, î fazzë sùbbëtë a vvëstìrmë: na lavätë dë faccë e stäk’a ppostë; a doccë!? më l’agghjë fattë dîcë jurnë fa. Andò ê ke pùzzë!? (odorandosi sotto le ascelle) Quìstë e ddôrë… quèsto e pprofumo di maschio latino, anzi, di maschio foggiano! Quannë sèndënë sta ddôrë… i fèmmënë s’astubbëtìscënë, nën-gapìscëne kkjù nnindë.
Elvìrë: E vëdè si ttë liv’i skarpë!
A mo’ di conclusione: nella redazione di un sistema di scrittura di un dialetto, semplice o complesso che sia, vanno tenuti presenti vari fattori:
1.            a seguito di un accurato studio che individui il repertorio fonetico, cercare di far corrispondere ad ogni segno grafico un fonema, evitando segni astrusi che si allontanino dalle soluzioni in uso,
2.            la scrittura del quotidiano non ha le stesse esigenze della trascrizione per fini scientifici per cui occorre evitare di urtare la coscienza e le conoscenze pregresse dei parlanti adeguando il sistema,
3.            ultimo ma non ultimo: poiché si utilizzano i mezzi informatici, i segni vanno cercati fra quelli di facile reperimento negli stessi, a che serve un bel sistema di trascrizione se il parlante per accedervi deve usare programmi complessi? All’uopo si consiglia l’uso della tastiera spagnola che ha gli accenti e la dieresi liberi, compreso il circonflesso, a parta la ñ, utilizzabile per gn.
Infine, visto che si parla di informatica, uno dei sistemi per riuscire a far scrivere in dialetto potrebbe paradossalmente consistere nella compilazione di programmi di traduzione… quanto sarebbe bello se potessi inserire: “Vado a casa” e mi venisse fuori nel dialetto di Foggia: “Väk’a käsë”; so che è riduttivo, ma credo che un Foggiano medio, nonostante le grandi semplificazioni apportate da Anna Marino Romano, ben difficilmente riuscirà a scrivere un bel brano nel proprio dialetto!
                                      
      

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