viernes, 27 de julio de 2012
Venditori abusivi ed evasione fiscale
Il fenomeno dei venditori abusivi, in genere extracomunitari, ha assunto proporzioni mai viste. Essi invadono piazze e strade e specie i luoghi più frequentati, assicurandosi vendite notevoli. Disporre di una bancarella in una isola pedonale o in corso, esentasse, esente da tutti gli altri tributi, senza fastidiose compilazioni di registri e rilascio di scontrini è certo un affare. Un affare è anche poter spostare bancarelle di notevoli dimensioni in piazze e strade attraversando pericolosamente la folla, o parcheggiare auto in divieto di sosta, non pagare le autostrade e via dicendo: sono parte dei privilegi di un... povero extra-comunitario che i "ricchi" italiani non hanno. Si sta così formando una classe di privilegiati che sta apprendendo che l'Italia è il paese di Bengodi, dove è permesso loro fare tutto quello che vogliono, anche intralciare il traffico e porre la mercanzia dove vogliono. La cosa più grave è che la merce non è fatturata per cui anche a monte del venditore di strada vi è tutta una filiera che non paga le tasse. Il fenomeno va considerato in rapporto al numero di questi venditori. Non si capisce perché agli italiani "normali" vengano contati tutti i peli mentre costoro e quelli che stanno alle loro spalle sono privi di qualsiasi controllo vero da parte degli organi preposti. Una proposta molto semplice potrebbe essere quella che i vigili urbani e la polizia tributaria nell'incontrarli procedano ponendo le multe ed esigendo in ogni caso il pagamento del plateatico e delle imposte (iva etc....) riscuotendo al momento o sequestrando la merce, in seguito imponendo l'abbandono della postazione. In una epoca di sacrifici così duri, specie al Sud non è possibile che un esercito di questi venditori possa sottrarre posti di lavoro e far chiudere negozi vessati dalla politica fiscale del governo.
Blasit Agol Zei
Punto di Stella
I Forum dei dialetti garganici
(Peschici, Rodi G., Vico del Gargano)
Peschici – 17 Luglio 2012
Scrivere e trascrivere i dialetti anche del Gargano
di Nando Romano
Autorità, Signore, signori, buonasera,
in apertura mi tocca ringraziare l’infaticabile Piero
Giannini, cui devo la mia presenza qui questa sera: il tema dei lavori è di
tutto interesse ma abbastanza complesso, in quanto aspetti sociologici del
dialetto (si deve o non si deve parlare il dialetto?) rincorrono aspetti tecnici
(come si scrive un dialetto?). Sembra quindi che emergano due grandi esigenze. La
prima è connessa alla rivendicazione e conservazione o meno dell’identità
etnica in tutti i suoi aspetti, ed “in primis” la lingua; un tema che entra a
buon diritto nelle valutazioni socio-politiche che riguardano nel profondo l’individuo
ed il gruppo e che ha riflessi nei più svariati aspetti della vita, ne
affastellerò qualcuno nell’impossibilità non di elencarli ma solo di
accennarli: dai rapporti quotidiani, alle “variandi” nell’italiano locale e
nella scrittura che normalmente sono intesi come “errori di italiano”, alla
toponomastica, ai nomi dei prodotti commerciali ed insegne dei negozi, e via
dicendo.
La seconda è una domanda di chiarezza che investe il
settore specifico degli studi, la dialettologia italiana: si chiede, in parole
povere, di divulgare che cosa sia un dialetto, come si studia, quali le
caratteristiche dei dialetti del posto, come trascriverli e come semplicemente
scriverli nelle comunicazioni quotidiane anche per via elettronica (e-mail,
sms).
Come si può notare sono stati innescate, in poche e
semplici parole, problematiche di notevole portata per cui cento incontri non
sarebbero sufficienti figuratevi questa chiacchierata.
Eppure sono grato agli organizzatori, perché, se non
ci si incomincia ad impegnare, i problemi non si risolvono mai. Per questo
motivo ho voluto preparare insieme a loro un CD gratuito in cui ho raccolto dei
materiali sugli argomenti qui sopra esposti: ovviamente quelli che ho potuto
reperire in rete e che, a parte tutto, entravano nell’angusto spazio di un CD,
spero con la benevolenza degli autori i cui studi sono stati pubblicati e
sperando che altri voglia sviluppare l’idea proseguendo nella raccolta. Oggi
più che mai occorre mettere a disposizione le informazioni. Per questi motivi
il mio titolo può apparire un po’ sibillino: si tratta di una delle rarissime
iscrizioni daunie pubblicate dal mio maestro, Oronzo Parlangèli, in Testimonianze linguistiche della Daunia
preromana, (in “Capitanata” 1967, pp. 39-50), ed a Lui consentitemi di
dedicare queste modeste parole ricordandolo con affetto. Noi non siamo in grado
di ricostruire la lingua dei Dauni per la scarsezza della documentazione: poche
epigrafi viestine, fra cui questa, una lucerina e varie monete di Arpi e Salpi,
ciò che la dice lunga sulla impellenza di scrivere e trascrivere il proprio
dialetto e non solo per fini documentari. Blasit
agol zei! Che dovrebbe essere una invocazione o un ringraziamento a Giove
(*dii).
Ritornando all’assunto: va da sé che sul primo punto
difficilmente posso mettere lingua, anche perché esso coinvolge considerazioni
anche estetiche che spesso lasciano il tempo che trovano, in quanto è molto
facile disprezzare un dialetto, da questo punto di vista, meno una lingua, solo
perché la fragilità di chi esprime questi giudizi lo consente. Restano tuttavia
considerazioni personali o del relativo gruppo. Posso solo aggiungere che un
processo di emarginazione sta coinvolgendo varie regioni italiane non solo al Sud,
in un contesto socio-economico, a mio avviso, di periferizzazione di aree che
potrebbero avere, per i loro caratteri intrinseci, per la loro storia, per la
bellezza del paesaggio, per la dolcezza del clima, la facilità e, consentitimi
di aggiungere, la qualità della vita, ben diverso destino. E ciò a vantaggio di
centri macro-economici dove si spostano le risorse del paese e dove l’individuo
non ha più radici e soffre di tutti i disturbi conseguenti anche perché
costretto a vivere in una reale periferia. Eppure molti, specie i giovani,
pensano che sia preferibile vivere altrove che non qui. Non proseguo, lascio a
voi ogni considerazione.
Posso permettermi di dire qualcosa
sul secondo punto, ovviamente sarò poco meno che telegrafico. Definire un
dialetto non è facile anche perché riesce più complesso parlare in astratto,
mentre se si dice, “exempli gratia”: il
dialetto di Peschici oggi è più facile farlo. Giacché un dialetto è una
lingua normale, è la lingua in
condizioni di non dipendenza o di isolamento anche relativo dell’intero gruppo
o di una classe sociale, non necessariamente povera o emarginata. Si trasforma
invece in un idioma subordinato ad un’altra o ad altre lingue quando i parlanti
riconoscano la subordinazione della loro lingua verso un’altra, o altre, quella
nazionale, o quant’altro, mutuandone fenomeni che finiranno per trasformalo e
farlo apparire una forma volgare o ridotta o relativa della stessa. Ciò
comporta vari problemi fra cui il più grave è la sordità fonologia, ossia i
parlanti di un dialetto non ne riconoscono i suoni come succede nell’ambito dei
dialetti meridionali, per la sonorizzazione delle sorde post-nasali, “exempli
gratia”: i parlanti sono convinti di dire dente
in realtà hanno detto: dende, e così
dovrebbero scrivere in dialetto; una simile “variande” viene considerata un
errore di italiano, ed insieme alle altre, nel parlato, concorre a formare… l’accento. Il tema sarà ripreso fra poco
per quanto attiene i problemi della resa grafica del dialetto fenomeno in cui
la sordità fonologica risulta essere del tutto funzionale nell’impedire una
corretta scrittura.
Il dialetto di una piccola comunità di pastori sottoposti
agli etruschi ebbe una fortuna sfacciata al punto da essere oggi la lingua più
diffusa al mondo, come lo può essere il latino i cui tratti sono presenti ovunque,
ed anche nell’inglese o nel cinese. Il dialetto di Firenze è alla base
dell’italiano. Nessuno vieta che il dialetto di Peschici possa divenire una
grande lingua, a condizione che i parlanti realizzino le condizioni che lo
consentano.
Come si studia un dialetto? Molti
sono i profani che si mettono al lavoro compilando grammatiche e lessici in cui
in genere seguono i percorsi della grammatica della lingua nazionale, ossia di
un’altra lingua che talora poco ha a che vedere con il dialetto, se non la
comune origine latina e l’influsso della lingua nazionale sul dialetto e, poche
volte, del dialetto sulla stessa. Le loro trascrizioni sono carentissime anche
perché l’italiano è una lingua che dispone di solo cinque segni per le sue
sette vocali; come è possibile, mi chiedo, trascrivere le tredici e più vocali
del dialetto di Foggia con questo magro inventario? Ciò che meraviglia è che
costoro spesso dispongono di conoscenze informatiche da fare invidia ma non
sospettano che possa esistere una scienza dialettologica, per cui i materiali,
carentissimi, sono spesso elegantemente presentati in internet.
La scienza che studia i dialetti è la dialettologia italiana. Un dialetto
romanzo, come il dialetto di Peschici, è il latino parlato oggi a Peschici e si
può studiare da un punto di vista diacronico, opponendolo ad uno stadio più
antico del latino stesso. Inoltre può essere studiato dal punto di vista
sincronico se si studia solo lo stadio odierno o di un altro dato periodo.
Quali sono le caratteristiche dei
dialetti del posto? Se la grammatica di un dialetto non si modella su quella
della lingua nazionale, occorre individuare percorsi specifici. I dialetti del
Gargano, ed anche quelli dei nostri tre comuni, fanno parte dei dialetti meridionali,
un gruppo che dalle Marche meridionali si estende fino al Circeo, ed a Sud
include la Calabria settentrionale, mentre ad Est la Puglia settentrionale, con
esclusione del Salento dove si parlano dialetti meridionali estremi. Nel delinearli
mi limiterò alla fonetica giacché essa è funzionale ad un discorso sulla
scrittura:
- Sistema vocalico basato sul romanzo comune di sette vocali: A breve e
lunga, Ě, Ī, Ŏ, Ū mentre gli esiti delle vocali toniche da Ĭ-Ē ed Ŭ-Ō si
fondono: come in italiano, le voci con queste vocali avranno identico esito:
pépe/séra (lat.: PĬPER e SĒRA), óra/córto (lat.: HŌRA e CŬRTU).
- La metafonesi ha valenze morfologiche in quanto contribuisce a notare il
plurale, il femminile o le persone dei verbi, attenuati dalla presenza dello
“schwa”: abbiamo le coppie pòrkë/purkë per
‘porca/porco’ o anche këlòrë/këlurë
per ‘colore/colori’, e kòrrë/kurrë
per ‘io corro/tu corri’, esso è dovuto all’influsso delle vocali finali sulla
tonica. Si realizza in forme diverse e dove più dove meno.
- Riduzione a “schwa” delle vocali atone.
- Sonorizzazione delle consonanti sorde post-nasali e
dopo /l/.
- Assimilazione dei nessi ND in /nn/ ed MB in /mm/ per cui si ha munnë da Mundu ‘mondo’ e palummë
da Palumbu ‘COLOMBO’.
- Shandi: ossia raddoppiamento fonosintattico, comune all’italiano, che
prevede il raddoppiamento delle consonanti iniziali in presenza di espressioni
come: vado a casa che in realtà è: vado a kkasa, in quanto la AD latina
conserva la perduta /d/ nel raddoppiamento. Identico fenomeno si ha con i
neutri in cui occorre distinguere rë
ssalë da lu kanë, per ‘il sale’
ed ‘il cane’ (da Illud), e con i
femminili: lë ffémmënë ‘le donne’.
Morfologicamente si ha il possessivo enclitico: pátëmë ‘mio padre’, ed il condizionale
in –ía. Sintatticamente, l’accusativo
con preposizione: agghjë vist’a Mmarjë per
‘ho visto Mario’.
Un dialetto può avere un repertorio fonetico diverso da quello della lingua nazionale, ma la stessa lingua nazionale ha un sistema in cui la sostanza fonica non corrisponde alla resa grafica. Nella tabella qui sopra ho raccolto alcune problematiche, ma non va sottovalutato che l’italiano dispone di soli cinque segni per rendere sette vocali, e che due di questi segni (i,u) rendono anche le semivocali /j/ /w/. A prescindere dalle problematiche orto-epiche degli italiani. Allora come trascrivere un dialetto? E perché si è fatta una differenza fra scrittura e trascrizione? Due sono i sistemi più diffusi per la trascrizione: quello dell’International phonetic Association (IPHA) e quello detto dei Romanisti. Il primo è il più diffuso perché legato alle fortune dell’inglese. E' fancilmente rintracciabile nel web.
Il secondo è più usato dai dialettologi italiani che
tuttavia ora piegano verso il precedente, fu utilizzato dalla Carta dei dialetti italiani (O.
Parlangèli, Questionario, Bari, 1967).
Solo adesso possiamo calarci nella pratica. Quale può
essere la differenza fra scrivere il dialetto e trascriverlo? Una persona di
media cultura può imparare la trascrizione fonetica in poche ore, per cui, data
la complessità dei dialetti pugliesi, e non tanto di quelli del Gargano
settentrionale, sarebbe il caso di gridare: nell’era in cui un hobbista ne sa
più di un tecnico, chi voglia trascrivere così complessi dialetti si serva di
uno dei metodi qui sopra! Perbacco! A parte, farebbero prima, invece di
reinventare tutto creando solo confusione. Ostano però due problematiche. La prima, il possibile rifiuto del
parlante di un nuovo metodo di scrittura: ribadisco che chi sa scrivere lo sa
fare nei modi prescritti per la lingua, che è per lui la lingua, sicché la grammatica di questa lingua è la grammatica; ripeto: la maggior parte
delle grammatiche dialettali scritte dai profani seguono quella della lingua
italiana con le sue belle... cinque vocali cinque! Anche l’alfabeto di questa
lingua è l’alfabeto. Lasciate però
che faccia una precisazione: l’alfabeto non è un semplice strumento, un
repertorio di 21 lettere giusto per scrivere! L’alfabeto è un percorso simbolico
che la nostra mentalità illuministica e positivistica volentieri ci nasconde; si
collega ai primi ventuno numeri ed ai codici mantici connessi, come i tarocchi.
Giocando con le lettere ed i numeri, non solo nel Medioevo e non solo nella
nostra società, si cercava e si cerca di comprendere il volere di Dio. Una
psicologia “ante litteram”. Può un parlante rinunziare a istanze così profonde?
La seconda problematica
dipende in parte dalla precedente ed è la sordità fonologica. Una volta
convinto il parlante ad usare un sistema di trascrizione fonetica, sarà capace
di ascoltare ed ascoltarsi? Saprà trascrivere dende e non dente? Questo
non si impara in poche ore in quanto la sordità fonologica è paragonabile
spesso alla vera sordità.
Il dialetto dell’area non offre gravi problemi, a lato
il sistema vocalico del dialetto di Vico del Gargano, da me elaborato sulla
base del fondamentale contributo di Giacomo Melillo, I dialetti del Gargano, Pisa, Simoncini 1926. Le
vocali del latino ci rendono poche vocali toniche e dittonghi (/a, è, è, au, ij, i, u, ò, ó), per cui non vi sarebbero problemi nel riprodurli anche con i pochi
segni dell’italiano. Per dare una idea di questa semplicità lo confronto con lo
schema realizzato dallo scrivente per Foggia (a lato), per illustrare la resa grafica di
quel complesso dialetto, ideata da Anna Marino Romano († 2009) una delle più grandi
trascrittrici dei dialetti italiani.
Il
segreto di ogni buon sistema grafico: ad ogni fonema deve corrispondere un solo
segno grafico! Ciò che consente e consentirà di leggere quanto espresso,
peraltro il materiale prodotto potrebbe essere utilizzato in ambito
scientifico, in mancanza di inchieste condotte da specialisti.
Questo principio non è sempre applicabile a dialetti più complessi, come
quello di Foggia; qui il parlante potrebbe avere difficoltà sconosciute a
quelli del Gargano settentrionale, simili a quelle dei bambini inglesi: mentre
un bambino italiano impara a scrivere entro la II elementare, gli inglesi lo
fanno entro la V. Anna Marino Romano, nel tradurre, dallo spagnolo in foggiano,
la commedia di Jacopo Langsner, Esperando
la carroza, molto dovette soffrire per ridurre i segni diacritici,
tollerando anche qualche ambiguità. Come si può vedere nell’illustrazione qui
sotto, Ella riunì le vocali turbate sotto l’accento circonflesso (/î, û, ê, ô/), le centrali (/ë, ä/) sotto la dieresi, tolse gli
accenti alla /i/ ed /u/ chiuse, lasciandoli su quelle aperte;
mancando l’opposizione è~è ed ò~ó, tolse gli accenti alle semiaperte
/è – ò/. Per le consonanti segnalo solo le pre-palatali /ś/ e /ć/ (fricativa) e la
resa delle occlusive post-palatali /kkj/
e /gghj/.
Segue un brano della commedia: Krìscé fìgghjë, krìscë… (purkë)(Atto I, scena II):
Elvìrë: Angôr'a kkuà stäjë! Agàavëz’u kûlë da quela seggë,
so i gùnëcë, e da stamatînë ke stäjë assëttätë a lleggë, vìstëtë, múuvëtë,
vatt’a ffa na doccë, ke fit’a kkänë múurtë!
Tanùccë: Moo, moo! kuanda kazzë dë frettë, î fazzë sùbbëtë a
vvëstìrmë: na lavätë dë faccë e stäk’a ppostë; a doccë!? më l’agghjë fattë dîcë
jurnë fa. Andò ê ke pùzzë!? (odorandosi
sotto le ascelle) Quìstë e ddôrë… quèsto e pprofumo di maschio latino,
anzi, di maschio foggiano! Quannë sèndënë sta ddôrë… i fèmmënë
s’astubbëtìscënë, nën-gapìscëne kkjù nnindë.
Elvìrë: E vëdè si ttë liv’i skarpë!
A mo’ di conclusione: nella redazione di un sistema di scrittura di
un dialetto, semplice o complesso che sia, vanno tenuti presenti vari fattori:
1.
a seguito di un accurato studio che individui il
repertorio fonetico, cercare di far corrispondere ad ogni segno grafico un
fonema, evitando segni astrusi che si allontanino dalle soluzioni in uso,
2.
la scrittura del quotidiano non ha le stesse
esigenze della trascrizione per fini scientifici per cui occorre evitare di
urtare la coscienza e le conoscenze pregresse dei parlanti adeguando il
sistema,
3.
ultimo ma non ultimo: poiché si utilizzano i mezzi
informatici, i segni vanno cercati fra quelli di facile reperimento negli
stessi, a che serve un bel sistema di trascrizione se il parlante per accedervi
deve usare programmi complessi? All’uopo si consiglia l’uso della tastiera
spagnola che ha gli accenti e la dieresi liberi, compreso il circonflesso, a
parta la ñ, utilizzabile per gn.
Infine,
visto che si parla di informatica, uno dei sistemi per riuscire a far scrivere
in dialetto potrebbe paradossalmente consistere nella compilazione di programmi
di traduzione… quanto sarebbe bello se potessi inserire: “Vado a casa” e mi
venisse fuori nel dialetto di Foggia: “Väk’a käsë”; so che è riduttivo, ma
credo che un Foggiano medio, nonostante le grandi semplificazioni apportate da
Anna Marino Romano, ben difficilmente riuscirà a scrivere un bel brano nel
proprio dialetto!
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